Appropriazione culturale, stereotipi etnici ed altre amene farneticazioni

Parecchi anni fa mi capitò di guardare una puntata di “Made”, ennesimo reality show targato Mtv ed ambientato negli USA concepito con l’evidente proposito di offrire al pubblico uno spaccato introspettivo estrapolato dal vissuto delle giovani generazioni. Il canovaccio del format era più o meno questo: una serie di scapestrati adolescenti serbano ciascuno un particolare sogno nel cassetto, per far sì che li riescano a raggiungere si affibbia ad ognuno di essi un fantomatico coach, sé-dicente esperto della materia in questione e solitamente raccattato nello sterminato sottobosco delle aspiranti celebrities. Tra i teenagers coinvolti poteva capitare di trovare il ragazzo obeso che vuole dimagrire per partecipare alle selezioni sportive della scuola, la bruttina desiderosa di incontrare un cavaliere che la accompagni al prom di fine anno; chi sognava di diventare ballerina e chi attore, insomma, brufoli, estrogeni e testosterone. Cose di questo tipo. La tizia nella quale mi capitò d’imbattermi era una ragazzina appassionata di rap, e desiderava fortemente diventare una MC. Bianca e di buona famiglia, tale privilegiata estrazione sociale sembrava già di per sé costituire un primo ostacolo alla realizzazione del suo obbiettivo.

Arrivati ad un certo punto della tabella di marcia stilata dal tutor, questi, con l’intento di farle impattare una realtà ed uno standard di vita assai più duri rispetto alla sua routine quotidiana decide di portarla in visita presso una scuola a forte presenza di studenti afroamericani situata in un quartiere non particolarmente fortunato. Rimasi esterrefatto dall’accoglienza che le riservarono: all’interno di una classe composta da soli suoi coetanei di colore fu messa alla berlina e fatta oggetto di terribili canzonature. A detta dei presenti infatti ella non avrebbe dovuto permettersi di tentare la strada agognata, in quanto l’hip hop dovrebbe essere ad esclusivo appannaggio della razza negroide. Uno di quegli allievi sentenziò, e per inciso fu la prima volta in cui incappai in una formulazione di questo tipo, che la nostra amica si stava macchiando dell’imperdonabile onta conosciuta con la dicitura “appropriazione culturale”. Rimasi a dir poco interdetto. Quasi automaticamente ragionai sul fatto che, appartenendo io alla compagine etnica maggiormente dispensatrice di civilizzazione nei confronti dell’umanità, se avessi voluto cominciare a condividere il bizzarro ragionamento di quel tipo mi sarei trovato piuttosto spesso nella condizione di dover storcere il naso. O no? Avrei dovuto obbiettare qualcosa ogni qualvolta il primo individuo neanche lontanamente ascrivibile alla genia dei mangiaspaghetti avesse osato recitare un paio di versi della Commedia di Dante. O esporre in casa propria una raffigurazione della Venere di Botticelli. O canticchiare un successo di Pavarotti, cucinare una lasagna, pasteggiare del Chianti, inscenare una pièce di Pirandello o godersi uno dei capolavori di Fellini. L’elenco potrebbe continuare a lungo. E invece no, presto mi resi conto di quanto questo strampalato assunto valga solamente in una direzione; cioè, il ruolo della vittima viene d’ordinanza concesso solo a taluni raggruppamenti.

Ma tant’è, all’epoca ebbi l’impressione che quei giovanotti fossero solo dei semplici fanatici, degli stravaganti scavezzacollo; ritenni quel ragazzotto una sorta di suprematista del dreadlock, e nulla di più. Pur constatando una pericolosa illogicità nelle sue asserzioni non gli diedi troppo peso. Oggi, invece, siamo costretti a constatare come costruzioni congetturali tanto folli ed avventate costituiscano il brodo di coltura del nostro zeitgeist.

L’ultimo vaneggiamento al quale c’è toccato assistere riguarda la piattaformaDisney+” e, loro malgrado, i relativi abbonati. Per i fruitori di questo prodotto che abbiano nel proprio nucleo familiare almeno un minore di sette anni da un paio di settimane non è più possibile scegliere, tra i contenuti a disposizione, alcune tra le migliori produzioni della casa: “Le avventure di Peter Pan”, “Dumbo” e gli “Aristogatti”. Il motivo? Semplice, i lungometraggi in questione presenterebbero delle “rappresentazioni negative e/o trattamenti errati nei confronti di persone o culture” [1]. Per farla breve, come oggi va di moda dire, degli “stereotipi etnici”. Non posso esimermi dall’avanzare un paio di note a margine di tanta dissennatezza, innanzitutto bisogna però valutare a fondo il merito delle contestazioni. Il cartoon ambientato nell’”Isola che non cè” avrebbe la colpa di appellare come pellerossa – “redskin”, o “red man” – i nativi americani [2]; in quello con protagonista l’elefantino voltante vengono stigmatizzati due passaggi (le cui sequenza a mio parere equivalgono a degli autentici gioiellini), uno in cui la banda dei corvi prende di mira il piccolo pachiderma [3], nell’altro uomini ed animali sgobbano faticosamente  sotto la pioggia battente al ritmo della canzone dei lavoratori del circo, i “roustabouts” [4]. Questo poiché, a causa degli elementi biologici che richiamano apertamente la provenienza africana dei personaggi, in entrambi i casi verrebbe ridicolizzata la disumana parentesi schiavistica. Per quanto riguarda invece la storia felina nel mirino è finita la raffigurazione del gatto siamese Shun Gon [5], troppo caricaturale e quindi irrispettosa verso i tratti fisiognomici asiatici.

Ora, per quanto si possa ed in una certa misura si debba effettivamente considerare lecita la preoccupazione volta ad evitare che una determinata produzione artistica veicoli dei messaggi discriminatori, appare del tutto palese il clima da caccia alle streghe che è stato instaurato in ogni declinazione della vita collettiva. Un’allucinazione senza fine. Inoltre, ripeto, tali levate di scudi vengono sguainate solo in difesa di particolari categorie, non a tutte viene riconosciuta la possibilità di accampare rivendicazioni. Perché? Volendo rimanere nel computo dell’ultimo caso citato ed abbassandoci per un momento al miserrimo livello cognitivo di quanti approvino simili scelleratezze potremmo infatti senza tanta fatica constatate come “The Aristocats” di luoghi comuni ne presenti parecchi. Che dire di Peppo, il gatto italiano – “the italian cat” nei titoli di coda – che suona la fisarmonica, indossa una sorta di bandana rossa a pallini bianchi ed un copricapo da gangster? Non è anche questo un cliché che potrebbe risultare offensivo? E per quanto riguarda Thomas O’ Malley, a noi noto come Romeo grazie alla voce dell’indimenticabile Renzo Montagnani ma che nella versione originale è un randagio irlandese perdigiorno e scansafatiche?

Per rimarcare lo stato comatoso nel quale versa il dibattito pubblico potrebbero essere addotti a scopo esemplificativo ancora tanti e tanti episodi, delle più disparate inclinazioni. Ormai, infatti, il sole non tramonta senza che le cronache giornalistiche quotidiane non abbiano riportato con la loro insopportabile tendenza accusatoria lo specifico caso di intolleranza perpetrato ai danni della siffatta comunità protetta o la determinata aberrante ingiuria vomitata contro il singolo membro x del vattelapesca intoccabile gruppo. E via giù con le sciroppose filippiche volte ad irreggimentare la comune sensibilità in direzione di una maggiore inclusività, di una più proficua partecipazione ai processi di sensibilizzazione, della necessità di una mobilitazione – prima mediatica, poi magari anche giuridica – volta ad arginare gli estremismi. Viene alla fine imposta a suon di colpevolizzazione l’accettazione passiva delle peggiori abominevolezze partorite dai padroni del discorso, che con il pretesto di combattere il sempiterno spauracchio della discriminazione verranno fatte ingurgitare a forza ai poveracci del mondo libero.

Ma bisogna fare attenzione, quando si abbandona lordine per il caos, la catastrofe fa capolino.

Risuonano profetiche le parole dello storico leader socialista Pietro Nenni, secondo il quale quanti volessero gareggiare nella singolare competizione volta a certificare chi tra i partecipanti disponga del maggior grado di purezza saranno destinati a trovare, prima o poi, qualcuno più puro di loro che finirà con l’epurarli.

Quest’insana corsa alla criminalizzazione di tutti gli indomiti determinati a rigettare con forza gli irricevibili paradigmi intellettuali imperanti non porterà nulla di buono. No. Anzi, a lungo andare, a forza di tirare la corda produrrà l’inevitabile epilogo di tanti morti ammazzati.

Alla stregua di una vera e propria guerra.

GRV

 

[1] Estratto del messaggio contenuto del disclaimer redatto per gli abbonati di “Disney+” che provassero a riprodurre uno dei cartoni incriminati.

[2] https://www.youtube.com/watch?v=Efaqfsqg7hU

[3] https://www.youtube.com/watch?v=Sk1O8Vhz1Fc

[4] https://www.youtube.com/watch?v=P75mur1xF7U

[5] https://www.youtube.com/watch?v=4rrXR6n0RTY

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